2002, Armando Falcioni
L'ULTIMO CAPITANO DE "LU POPOLO" (Tratto da: Armando Falcioni, “Pagine in Bianco e Nero” – L’Ascoli, il suo blasone, la sua gente, il suo territorio, Simbiosi Editrice, 2002.)

Scritto di getto il giorno dopo l'addio al Presidente. Rifiutammo di assistervi preferendo l'ultimo ricordo di Rozzi, il più vero, durante una telecronaca su TVA Telecentro. Era l'8 dicembre 1994, giorno della semifinale di andata della coppa anglo italiana, al "Del Duca contro l'Ancona...
Da "Forza Ascoli" di Gennaio 1995

Quel giorno arrivammo per primi. Aveva da poco piovuto e la piazza, dove una volta si arringava la folla, cominciava ad animarsi.

Occorreva prepararsi alle incognite fatiche del quotidiano, come sempre, ma anche un bimbo avrebbe capito che ad Ascoli quello non era un 20 dicembre qualunque.

Tra il brillare degli alberelli messi ad arte a ridosso di vetrine ancora spente trasparivano visi tesi, seganti da una notte trascorsa in agitazione e sguardi attoniti, persi verso la porta del Duomo, già spalancata. Ascoli non poteva mentire a se stessa e a chi la conosceva a menadito. Il lutto era dentro di noi e che quella fosse una mattinata di struggente addio non era significato solo da due fredde file di transenne sulla piazza, brulicante di vigili urbani e di indaffaratissimi uomini in blu.

Ci defilammo verso "Porta Vescovo" perché, come è normale in questi casi, avevamo poca voglia di parlare, attendendo, per dimostrare imperitura riconoscenza, il freddo feretro del presidente.

Erano circa le 8,45 ed intanto quella maledetta invenzione chiamata cellulare iniziava il suo assordante ritornello. Era vero! Avevamo solo fatto finta di dimenticare che 100 Km più a nord eravamo attesi da un improrogabile impegno di lavoro dalle parti della marca dorica. Una scusa,un'altra, la richiesta incessante di pazienza a chi non poteva e non doveva capire.

Accidenti! Ma perché almeno un giorno non rompere quella cortina di comune senso del lavoro che ci attanaglia? Perché in questi casi il mondo non si ferma, in silenzioso rispetto, per la morte di un uomo?

Per un quarto d'ora ci fermammo davvero, abbandonando la piazza con la mente e tornammo indietro. Non dovemmo fare molta strada per la verità, non perché del Presidente non ci fossero spunti per ricordarlo, Costantino non ce ne voglia. Fermammo la mente alla prima occasione soltanto perché l'ultimo ricordo di una persona cara rimane, oltre che il più struggente, anche il più vero.

Era il giorno dedicato all'Immacolata Concezione ed il destino, che quando vuole inventa bizzarrìe a iosa, aveva trovato un Ascoli – Ancona in un torneo che solo pochi conoscevano.

Una digressione sul tema che avevamo accolto con un certo fastidio perché avrebbe diluito l'interesse, sempre vivo, sul duellare del campionato regolare tra dorici e piceni.

Contribuirono però il pensiero di Wembley, sempre pieno di fascino, i colori biancorossi, sempre fastidiosissimi alla vista, e tale Gianni Beschin da Legnago (VR), accecato di fronte ad un impatto tra Bosi e Berti in area, a riscaldare un ambiente diffidente.

Nell'intervallo, tra le maledizioni nei confronti del direttore di gara, di professione gioielliere, e con l'Ascoli sotto di un gol, arrivò Costantino in sala stampa. Per la verità la sua imminente presenza era stata avvertita già qualche istante prima. Si percepivano le imprecazioni contro gli orafi, i fischietti, le casacche nere, gli inglesi, gli anconetani, etc. La ripresa era iniziata e, perseverando nelle sue tenere intemperanze, si mise a sedere accanto a noi che eravamo alle prese, come sempre, con un microfono. Apprezzavamo, mentre i minuti passavano il Rozzi più vero, più casalingo, meno condizionato da flash, telecamere e processi vari; quel Rozzi che tra una bufala di mercato (l'acquisto di Galia) ed un colpaccio di mercato (la cessione di Galia), si era riavvicinato ad Ascoli ed all'Ascoli dopo anni di latitanza. Quello che si concedeva alle interviste, che appariva spesso e volentieri in televisione, colui che piombava in redazione, anche di propria iniziativa proprio come dieci anni fa.

Compiaciuti di ciò continuammo la nostra telecronaca alla meno peggio con il presidente che si esibiva, in parallelo, in un suo personalissimo e straripante commento alla nostra destra.

A quel punto decidemmo di chiedergli un parere, molto timidamente. Si perché tra noi, ultimamente non si era instaurato un grandissimo "feeling", ammettiamolo.

Soprattutto nell'ultimo lustro, quando, da De Sisti in poi, avevamo lamentato una latitanza perpetua del monarca dell'Ascoli Calcio, sempre così poco incline a demandar poteri e rifuggente al pensiero di dare alla società una parvenza di organizzazione, parola che rifiutava a priori.

Convinti che comunque il nostro era un rapporto franco, sincero, mai offuscato da piaggerie o scappellate di sorta, lo invitammo ad un parere su quel tale gioielliere veneto, vestito a lutto, secondo noi più a suo agio con ciondoli e fedi nuziali.

Apriti cielo! Prese il microfono a mò di scettro e brandendolo a destra e a manca lamentava i diritti suoi, dei ragazzi e del popolo piceno, defraudato da quel tale che, secondo lui, era arrivato ad ascoli solamente per "maggnà la liva fritta".

Era tornato lui, non esistevano dubbi. E lo capivamo mentre con le mani fra i capelli gli rammentavamo che quella era una sorta di diretta il cui commento doveva rispettare determinati canoni.

Figuriamoci! Nulla poteva frenarlo. Il torneo anglo italiano era soltanto una "ca....", rispetto al campionato di cadette ria, di ben'altra importanza, i nostri erano puntualmente definiti "semare" ad ogni piè sospinto, Spinelli "stupete" al momento dell'espulsione.

Sudatissimi riuscimmo a riprendere il microfono dopo che Costantino decise, per lavare l'onta della infame direzione arbitrale, di non onorare la semifinale di ritorno allo stadio "Del Conero" perché: "nù faceme quelle che c'pare".

La telecronaca mai andò in onda, ma eravamo felici lo stesso di averlo ritrovato così vicino all'ascolano medio, rappresentante verace di noi tutti, immagine e somiglianza dei nostri vizi e delle nostre virtù.

Chiamateci provinciali, accusateci di essere incapaci di vedere al di là dei confini tracciati dalla Laga, dai Sibillini e dall'alveo del Tronto, ma quando Ascoli ed il suo circondario vengono così degnamente delineati, gonfiamo il petto.

E lo abbiamo fatto più volte di fronte alla televisione, quando masticava nervosamente i lupini, faceva intravedere i calzini scaramantici, si agitava tutto, mandava all'altro paese ogni giornalista che capitava a tiro di verbo, gelava ogni interlocutore con delle frecciate ironiche che solo l'ascolano più autentico è in grado di inventare all'istante.

Ecco perché abbiamo amato senza precedenti questo "capitano de lu popolo", in versione moderna, ambasciatore di Ascoli sconosciuta quando questa era data in Abruzzo (certe volte sarebbe stato anche meglio, n.d.r.), Robin Hood della terra picena quando vituperata e defraudata, inimitabile pifferaio in grado di trascinarsi dietro una città tanto unica quanto immobilizzata nelle proprie tradizioni.

Di fronte a certe situazioni ci convinciamo, fino ahinoi, a prova contraria che determinati soggetti vengano ignorati dalla morte, più disposta verso il comune uomo della strada.

Lo volevamo credere fino in fondo, volevamo esorcizzare il trapasso di Costantino ricordandolo da vivo con quel microfono che alcuni giorni fa brandiva al Del Duca, come la sciabola il gran condottiero di altri tempi. Per questo, al sentore dell'arrivo del mesto corteo, imboccammo di corsa il lungo Castellano per guadagnare velocemente la strada del lavoro.

Ci risparmiammo le struggenti scene di Bierhoff in lacrime, dell'ovazione dei ventimila in piazza e della bara sommersa di sciarpe bianconere che, per suo merito portiamo, ora più che mai, virtualmente al collo. Arrivammo a destinazione quando Costantino probabilmente era già stato consegnato alla gloriosa, quanto millenaria, storia di Ascoli Piceno.

Ci ritroviamo l'ultimo giorno dell'anno e ci rechiamo dove il presidente riposerà per sempre. Il giorno prima avevamo urlato, in diretta e proprio da un microfono, a vedere, ad Ancona, il vessillo bianconero issato sul pennone più alto, consacrando, con una grande impresa, l'immortalità del personaggio.

Ora rimaniamo in silenzio di fronte ad un fredda costruzione di marmo con il vento che spazza, gelidamente, gli echi di 26 anni di immagini mai ingiallite preghiamo: che il Signore ti abbia in gloria Costantino, cento, mille, miliardi di volte più di quella gloria che in terra ti hanno riservato la tua Ascoli ed il nostro Ascoli.

Voi sapete che, prima di essere Presidente dell'Ascoli, io sono un ascolano, e fare qualcosa per la nostra città è qualcosa che mi dà fascino e mi dà veramente tanta gioia.

Costantino Rozzi